Non c’è alcun dubbio che Geoff Keighley abbia fatto centro con l’edizione digitale e a distanza dei The Game Awards 2020, show andato in onda nella notte tra il 10 e l’11 dicembre, autentica versione in salsa videoludica degli Oscar, che ha riunito per l’occasione addetti ai lavori provenienti da ogni parte del mondo. L’evento, durato più di tre ore e mezza, ha proposto lo stesso format che nel corso degli anni abbiamo imparato ad amare e a riconoscere, scaletta che tuttavia in questo sfortunato eppur particolare 2020 ha palesato qualche limite strutturale, ideologico e filosofico, di troppo, un autentico anacronismo che diventa sempre più evidente anno dopo anno.

 

 

Il concept di fondo non è sbagliato, beninteso, e, soprattutto, allo stato attuale è pressocché immodificabile e irrinunciabile. Nato dagli sforzi e dalla creatività del solo Geoff, il brand dei Game Awards deve reggersi sulle sue gambe contando soprattutto sul supporto di sviluppatori e publisher che concorrono a dare forma e consistenza alla serata che, non giriamoci intorno, deve ovviamente produrre un qualche tipo di ricchezza, non solo per gli stessi organizzatori, ma anche per chi partecipa.

Il problema di fondo a cui si accennava poco sopra, del resto, è intimamente legato alla natura stessa dei Game Awards: si dovrebbe celebrare il videogioco, e i traguardi raggiunti nell’anno di competenza, ma si offre tanto spazio, fin troppo, a ciò che verrà, spostando, rimandando e annullando qualsiasi possibilità di dialogo, dibattito, analisi.

 

The Game Awards 2020 foto

 

Del resto la cultura dell’hype è ormai un motore, il motore, che alimenta la maggior parte delle industrie legate all’intrattenimento. L’ossessione del preorder, causa di ondate d’ira da parte di fan delusi da prodotti presentati in un certo modo che all’atto pratico possono dimostrarsi ben diversi, ogni riferimento a Cyberpunk 2077 è tutt’altro che casuale, è una lama a doppio taglio potenzialmente mortale, spesso necessaria per consentire a molti team di proseguire fino al termine dei lavori, rischiosa se poi le attese vengono malamente disilluse per l’appunto.

Lo spazio ai trailer, alle scritte a cubitali “world premier”, sono insomma tutti elementi necessari, innegabilmente utili allo show stesso perché capaci di attirare un gran numero di curiosi e di spettatori, che non vedono l’ora di sapere a cosa potranno giocare da lì a qualche mese, o, più realisticamente parlando, qualche anno.

Sì perché in questo momento di transizione da una generazione di console all’altra, l’aggravante di questa esaltazione dell’hype si annida e si esplicita in una lunga serie di video che puntualmente omettono il gameplay, quasi a dimostrare che vale più il nome, la forza del brand, il mood al massimo, che il gioco stesso, il giocare di per sé. Del resto, da questo punto di vista, è già da tempo che si è affermata questa pratica, utile a celare il reale stato di lavorazione di una produzione e al tempo stesso affine alle assonanze con il mondo del cinema che molti tripla A ostentano, quasi fosse un marchio che da solo è in grado di assicurare e comprovare la bontà di un progetto.

Tuttavia resta irrisolta, al momento, l’altra faccia della questione. Perché se è vero che i Game Awards premiano i migliori videogiochi dell’anno, resta da capire perché non sia entrati nel merito di un titolo come The Last of Us Part II, che si è portato a casa diverse statuette e che, soprattutto, ha infiammato, nel bene e nel male, critica e pubblico nel corso dei mesi.

 

the last of us parte II

 

Certo, lo show è già per sé piuttosto lungo e appesantirlo ulteriormente con discussioni di un certo tipo renderebbe il tutto insostenibile. Eppure ridurre il tutto alle solite frasi fatte, di ringraziamenti e poco altro, sembra davvero riduttivo, tantopiù che stiamo parlando di un medium che deve essere ancora pienamente riconosciuto, che per la sua stessa natura interattiva non deve sprecare neanche un’occasione per spiegarsi, per fornire chiavi interpretative valide e stabilite a chi poi quei giochi li ha fruiti o li fruirà.

Nel 2020 insomma, a fronte delle tante critiche lanciate da più parti al gioco dell’anno, a quel capolavoro imperfetto che risponde al nome di The Last of Us Part II, i Game Awards hanno perso l’occasione di ergersi a reale momento di riflessione e per ricalcare i contorni e confini di un’industria, quella videoludica, che si sta evolvendo con estrema velocità.

Lo show di Geoff Keighley è un carrozzone spettacolare e appassionante, ma ci auguriamo che in futuro voglia anche proporre e sviluppare qualche contenuto di maggior impatto.