Nel 1997 avevo dieci anni e, insieme alla mia cugina più piccola spesso giocavamo di nascosto con la fiammante PlayStation di un nostro parente più grande. A nostra disposizione avevamo già un paio di vecchi NES e un leggermente meno vetusto SNES, ma avevamo capito che il futuro era in quella scatoletta grigia marchiata Sony, con i suoi CD scintillanti e lo strano pad grigio.

Un giorno anziché i soliti platform trovammo nel tray della console un gioco nuovo, con un titolo che non sapevamo leggere: Grand Theft Auto, GTA. Dopo poche ore ci trovammo immersi nel mondo del crimine organizzato americano: per noi cresciuti con Mario e Link, il primo capitolo della saga creata da DMA Design fu una specie di epifania, furti, violenza, sangue, pedoni investiti. Scoprimmo, forse troppo presto, che i videogiochi erano pure una cosa da grandi.

La mia prima esperienza con la creatura dei fratelli Houser finì presto: mia zia, attirata dagli schiamazzi, entrò nella stanza proprio mentre dicevo a mia cugina una frase che qualsiasi appassionato di GTA ha ripetuto almeno una volta:

“Ammazza la puttana così riprendiamo i soldi.”

Il gioco ci fu sequestrato, ma capimmo subito che prima o poi saremmo tornati a Liberty City, Los Santos, San Andreas e Vice City.

E pensare che il primo capitolo di GTA non sarebbe neppure dovuto uscire. Sviluppato quasi a tentoni fra il 1995 e il 1996 il gioco nasce come racing game cittadino, per poi diventare un action, per poi basarsi sugli inseguimenti fra criminali e poliziotti, infine, con uno di quei colpi di genio che capitano una volta nella vita, i fratelli Houser si sono detti “ehi, nessuno vuole fare lo sbirro, essere cattivi è meglio”. Era nato Grand Theft Auto.

Grand Theft Auto screenshot

Grand Theft Auto in un’immagine

Oggi Rockstar Games è un colosso da con migliaia di dipendenti e nove studi sparsi fra il Regno Unito, l’India e gli Stati Uniti (c’era pure una filiale nipponica chiusa da tempo) ma, in un certo senso, rimane una multinazionale tascabile. Dal 1998 a oggi lo studio ha lavorato solo su 12 franchise, di cui solo uno – GTA – con più di due sequel; pur possedendo alcuni dei brand più acclamati dell’intero settore videoludico, da Max Payne a Red Dead passando per LA Noire e Bully, Rockstar non fa nulla per valorizzare le sue produzioni o meglio, tende a nascondersi. Niente press tour, nessuna presenza alle fiere di settore, contatti con la stampa ridotti al minimo e una segretezza quasi maniacale: Rockstar somiglia molto ad Apple, con la differenza che non sente neppure il bisogno di organizzare keynote o eventi particolari. Bastano un paio di immagini pubblicate sui social e il piccolo mondo dei videogiochi impazzisce. Hanno fatto più scalpore i due riferimenti a Red Dead Redemption di questi giorni che cinque trailer del nuovo Call of Duty.

“Nulla è fuori posto nei giochi di Rockstar, ogni elemento di gameplay è un ingranaggio armonioso che si muove preciso attorno al più vasto disegno del gioco”

Inoltre Rockstar appare del tutto immune alle necessità seriali dell’industria moderna: mentre EA, Activision e Ubisoft sono alla perenne ricerca di metodi per far uscire i titoli principali con cadenza annuale, o al limite biennale, i fratelli Houser se ne fregano. Fra GTA IV e GTA V sono passati cinque anni, Max Payne 3 s’è fatto attendere per un decennio, Red Dead Redemption 2, se l’uscita nel 2017 è confermata, arriverà a sette anni secchi dal suo predecessore. Per non parlare poi di Bully, The Warriors o LA Noire, tutti e tre amatissimi e tutti e tre ancora fermi al capitolo uno. Valve esclusa (che però campa con i guadagni di Steam) nessun altro studio può permettersi questo approccio allo sviluppo. Rockstar riesce a investire quasi il 100% dei suoi guadagni nei titoli successivi, limitando al minimo marketing e spese accessorie: non a caso Red Dead Redemption e GTA V sono fra i titoli più costosi della storia dei videogiochi, con budget ben sopra i 100 milioni di dollari.

Grand Theft Auto V PC screenshot 1

Grand Theft Auto V è forse il punto più alto della produzione di Rockstar Games

Forse solo Nintendo può vantare successi tecnologici, ludici e di pubblico paragonabili a quelli dello studio britannico e non è un caso che i fratelli Houser citino sempre i giochi di Miyamoto come principale fonte d’ispirazione. Apparirà strano ma GTA e Red Dead hanno molto più in comune con Super Mario e The Legend of Zelda che con Assassin’s Creed o Call of Duty. Rockstar, proprio come i colleghi di Kyoto, ha un approccio quasi artigianale al game design: tenendo alcuni punti fermi cerca con ogni nuova iterazione di aggiungere un mattoncino extra, bilanciandolo alla perfezione con il resto dell’edificio. Così come le avventure di Link si sono evolute da NES a Nintendo NX rimanendo però sempre fedeli a se stesse, pure Red Dead o GTA non hanno mai tradito le loro origini.

Nulla è fuori posto nei giochi di Rockstar, ogni elemento di gameplay è un ingranaggio armonioso che si muove preciso attorno al più vasto disegno del gioco. Proprio come nei titoli Nintendo, anche nelle produzioni dei fratelli Houser ci sono più livelli di approccio: il giocatore dilettante si trova davanti avventure confezionate alla perfezione e mai troppo difficili mentre l’appassionato vero, quello che spende centinaia di ore esplorando ogni centimetro della mappa, non viene mai lasciato solo; fra easter egg, misteri e obiettivi secondari gli sviluppatori sembrano quasi dire “noi ti conosciamo perché siamo come te e siamo contenti che il nostro gioco ti stia piacendo così tanto.”

Red Dead Redemption 2 banner scheda

Sellate i cavalli, Red Dead Redemption 2 è finalmente realtà

La tenacia di Rockstar nel non piegarsi alle regole – sbagliate – del mercato l’ha trasformata nel gioiello della corona di Take Two, diventando così l’unico studio capace di unire un successo di pubblico colossale (solo per GTA si parla di oltre 220 milioni di copie vendute) a stuoli di critici adoranti disposti pure a comprare (orrore!) i suoi giochi pur di recensirli. I fratelli Houser ci insegnano che un altro modo di sviluppare videogiochi è possibile, basta crederci e non avere paura delle proprie scelte.