Nei giorni scorsi il buon Fabio Canonico, caporedattore di BadGames, mi ha spedito un codice di Need for Speed Payback chiedendomi di scrivere qualcosa. Dopotutto la saga esiste dal 1994, passando da incarnazioni ottime ad altre meno riuscite e tutti i giocatori hanno almeno un suo episodio nel cuore. Per me fu Need for Speed III: Hot Pursuit, Anno Domini 1999, giocato su un vecchio Dell che a malapena manteneva i 25 frame al secondo. Mi sono avvicinato a questo Payback con tutte le buone intenzioni del mondo, non mi aspettavo un capolavoro assoluto ma, quantomeno, pensavo di trovarmi davanti un arcade onesto, forse non perfetto ma solido e divertente.

Le cose sono andate in maniera molto diversa.

Need for Speed Payback non è un videogame o meglio, non è un videogame pensato per I giocatori, è un videogame pensato per far soldi. Nessuno scandalo ovviamente, nessuno fa beneficenza, i publisher investono milioni di dollari e pretendono un ritorno, noi scriviamo per avere pageview e introiti pubblicitari, chiunque vende qualcosa per vivere. Electronic Arts con questo Need for Speed (aveva provato anche con Star Wars Battlefront 2, sappiamo com’è andata) però fa un passo ulteriore, trasforma l’esperienza di gioco in qualcosa che somiglia moltissimo – addirittura troppo – all’azzardo. Non propone semplici contenuti extra acquistabili con denaro contante e neppure semplici aggiunte estetiche ma apre in maniera scoperta a un vero e proprio sistema pay to win in cui, investendo denaro contante, si possono di fatto evitare alcune fasi di grinding abbastanza tediose ma necessarie per sbloccare potenziamenti e nuove vetture.

Need for Speed Payback screenshot

Personalizzare il proprio bolide stavolta potrebbe non essere così facile

Ci sono due ordini di problemi, il primo è smaccatamente etico, il secondo invece pertiene al game design: come unire il pay to win con la necessità di offrire un’esperienza di gioco bilanciata? La prima domanda è interessante ma pertiene relativamente a un magazine dedicato ai videogiochi, anche se è un punto su cui si stanno interrogando addirittura i legislatori, la seconda invece ci tocca più da vicino.

“quanto manca prima che le dinamiche più profonde dei giochi vengano piegate alla logica del profitto?”A oggi stiamo sperimentando l’uso di loot box e acquisti online come quelli di Need for Speed Payback ma quanto manca prima che le dinamiche più profonde dei giochi vengano piegate alla logica del profitto? Chi ci assicura che il gioco di Ghost Games o Star Wars Battlefront 2 non siano stati volontariamente resi più “difficili” per invogliare l’utente a spendere nei vari power up? Per dirla con una domanda sola: chi garantisce l’onestà dietro al rapporto fra publisher/sviluppatori e giocatore?

Fino a qualche anno fa l’accordo non scritto era abbastanza chiaro: gli appassionati pagavano e ottenevano in cambio un’esperienza di gioco più o meno soddisfacente, più o meno lunga, più o meno approfondita. Poi sono arrivati i DLC e abbiamo iniziato ad accettare titoli spezzettati, con contenuti proposti mesi o anni dopo l’uscita del capitolo primigenio. Ora siamo alla fase ancora successiva, in cui oltre a pagare per il prodotto (a questo punto tanto vale usare la parola più volgare possibile) bisogna spendere per riuscire a divertirsi.

Need for Speed Payback screenshot

Quello che Need for Speed dovrebbe essere in una sola immagine, senza onerose implementazioni

Nel frattempo qualsiasi genere videoludico deve essere piegato a questa logica deleteria e, dunque, abbiamo open world applicati (male) addirittura ai platform, continue e martellanti campagne pubblicitarie mentre giochiamo, titoli sempre più tagliati o proposti a episodi, con DLC o stagioni, manco parlassimo di serie televisive.

Alcuni sviluppatori, per fortuna, stanno provando a difendersi (CD Projekt RED, Naughty Dog…) ma la situazione è quasi critica. Se i giocatori non si faranno sentire il rischio è di trovarsi con un mondo dei videogiochi fratturato, con da una parte i fautori del gaming as service e dall’altra una resistenza che cerca di non conformarsi alla modernità andante. Sarebbe ora che pure la stampa specializzata iniziasse a farsi sentire, per esempio rifiutando di recensire titoli smaccatamente virati sul pay to win oppure segnalandolo in una sezione apposita. La sfida sarà lunga e impegnativa ma va combattuta, ne va del futuro del gaming e del rapporto fra publisher e giocatori.