Da che mondo è mondo, il PEGI è stato un metodo di catalogazione tanto inviso da alcuni giovani, quanto effettivamente inutile al lato pratico.

Per chi non lo sapesse, PEGI è un acronimo per Pan European Game Information e si riferisce al sistema di classificazione dei videogames attivo in Europa dall’aprile del 2003. Attraverso una serie di semplici icone, possiamo quindi capire l’età consigliata per il titolo che andremo ad acquistare e i principali contenuti che potrebbero lenire gli animi di una ristretta fetta di pubblico.

Vi starete chiedendo perché affibbiargli aggettivi come “inviso” e “inutile, a questo punto. Il motivo è presto detto: salvo in alcuni Stati dell’Unione Europa, il PEGI non ha nessuna valenza legale. Certo, esso è formalmente riconosciuto dagli enti preposti, ma non prevede alcun obbligo da parte del negoziante e nessuna restrizione da parte del cliente. Se un ragazzo di 12 anni volesse quindi acquistare Grand Theft Auto 5 (PEGI +18) sarebbe quindi liberissimo di farlo, mentre il commesso di turno sarebbe costretto ad assecondare il cliente pagante e a offrire lui quanto richiesto.

 

 

In questo modo si lascia nelle mani degli utenti (o dei genitori di quest’ultimi) la libertà di acquisto e l’ipotetico obbligo morale d’informarsi sul prodotto in questione.

È qui che le famiglie, tendenzialmente, si suddividono in due macro gruppi: quelli che cercano di monitorare le attività del figlio e quelli che se ne sbattono, lamentandosi poi se i bambini giocano a titoli con un target nettamente più elevato. Nel caso voi foste cresciuti con i genitori facenti parte della prima di queste due “fazioni”, potreste quindi provare un odio atavico nei confronti del PEGI.

Per un videogiocatore qualsiasi, infatti, è difficile dover stare a questo sistema di classificazione, attendendo fino ai 16 o ai 18 anni per giocare ad alcune opere effettivamente molto interessanti. Da qui il termine “inviso” utilizzato a inizio articolo, che si sposa con l’aggettivo “inutile” quando si decide di tenere nascosti i propri acquisti ai genitori e si scopre di poter comprare qualsiasi cosa, senza alcuna restrizione. Senza il bisogno che ci sia qualcuno al nostro fianco, alla cassa.

 

 

E poi diciamocelo: il primo gioco “proibito” non si scorda mai.

Chi vi scrive ha un ricordo molto particolare legato alla propria infanzia. Il ricordo di quando mio padre mi chiamò nella camera dei miei genitori e, di nascosto da mia madre, aprì il cassetto dei calzini, rivelando una copia del primo Resident Evil. Un titolo che, per un ragazzino di tredici anni come ero io, sapeva di maturità e di mistero. Un titolo del quale se ne parlava tra i banchi di scuola, essendo ancora molto lontani dall’avvento su larga scala di internet, forum, blog e siti d’informazione videoludica. Zombie, sangue, ansia, horror. Insomma: per chi veniva da Crash Bandicoot e Spyro si trattava di un bel salto nell’abisso. E si sa, quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro a sua volta.

Quel gesto di mio padre mi lasciò completamente spiazzato e, improvvisamente, mi fece capire di aver trovato un alleato nella mia passione per i videogiochi. Un alleato che, nonostante le parole “non dirlo a tua mamma”, decise poi di sedersi accanto a me per capire di non aver fatto un errore. Di non aver affrettato troppo i tempi.

Siamo certi che molti di voi possano vantare esperienze simili. La prima partita a GTA, lo scandalo del 2006 di Rule of Rose, la violenza di Mortal Kombat, il chiacchiericcio tra i corridoi della superiori nel periodo d’uscita di Manhunt. Nel corso degli anni ci sono sempre stati dei titoli che hanno fatto parlare di sé e che, inevitabilmente, hanno attirato l’interesse dei giocatori più curiosi (e più giovani). Una curiosità che nessun PEGI poteva, può e potrà mai fermare o rallentare.