Di recente il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci e Sony Italia hanno unito le forze per incanalare PlayStation VR lungo i sentieri della divulgazione scientifica. I primi frutti di questa comunione – che proseguirà per tutto il 2018 – sono le attività legate ai weekend Marte e marziani, mentre a partire da marzo fino a fine maggio la realtà virtuale affiancherà la mostra Incontri ravvicinati con il Pianeta Rosso.

Si tratta della prima volta che Sony, in Italia, collabora con un museo. Vista la rilevanza culturale della faccenda, abbiamo pensato di intervistarne uno dei principali promotori: Luca Roncella.

 

Ciao Luca, ti andrebbe di presentarti e di raccontarci di cosa ti occupi in seno al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano?

Ciao, molto volentieri. Sono innanzitutto un videogiocatore: ho iniziato a giocare con l’Intellivision nel lontano 1982 e da allora non ho più smesso. Dal 2002 lavoro per il settore Digital del Museo in qualità di Senior Interactive Producer e Serious Game Designer; nel corso degli anni sono riuscito a introdurre i videogame tra le mura dell’istituzione come strumento di apprendimento. Più nello specifico, mi occupo di progettare tutti i serious game per le sezioni espositive e di curare tutte quelle attività per il pubblico che hanno a che fare con le nuove tecnologie, i videogiochi e la realtà virtuale.

Questa è la prima volta che Sony Interactive Entertainment stringe un accordo con un museo per utilizzare le sue piattaforme ai fini della divulgazione scientifica: puoi raccontarci un po’ la genesi e lo svolgimento della cosa?

Sono un possessore di PlayStation VR da quasi un anno, e ho sempre seguito con interesse la realtà virtuale. Nel 2015 ho addirittura realizzato per il Museo un’app in VR dedicata al sottomarino Toti. Qualche mese fa, a Roma, in occasione di una conferenza sul tema della realtà virtuale nelle attività museali, ho incontrato i dirigenti di Sony e ho proposto loro – all’inizio informalmente – di infilare il visore tra le attività del Museo per aggiungere un po’ di pepe alle nostre esposizioni. Sony si è dimostrata subito molto sensibile verso l’argomento cultura, e dal corteggiamento reciproco è sbocciato presto il matrimonio.

Questa volta avete scelto di dedicarvi allo spazio. Quale altri rami della scienza, secondo te, si prestano all’esplorazione tramite VR?

Secondo me la realtà virtuale può veicolare qualsiasi argomento, senza confini; e di contro uno dei più grossi problemi della divulgazione scientifica è l’utilizzo di linguaggi complessi che vanno necessariamente semplificati. In quest’ottica, la VR, se usata nel modo giusto, può dimostrarsi grandiosa nel fornire concretezza a fenomeni astratti, a un processo o una tecnologia. Non è un caso che gli psicologi, in riferimento ai visori, parlino di senso di presenza.

Che tu sappia, la VR ha qualcosa da offrire anche nell’ambito della ricerca?

Assolutamente sì. Esiste una branca dell’archeologia chiamata virtual archeology che si occupa di ricostruire ambienti o oggetti del passato sulla base di dati sperimentali. In questo senso la tecnologia estende i nostri sensi e ci permette di dare una forma esperibile a meri rilevamenti numerici.  Poi, penso anche all’utilizzo che si fa delle tecnologie di realtà virtuale o aumentata negli ambiti del design industriale: oggi i progettisti eseguono test di ergonomia su oggetti che esistono solo virtualmente, senza ricorrere a prototipi fisici. Non è fantastico?

In passato il Museo ha lavorato con Activision in seno al lancio di Destiny. In quel caso, tuttavia, al netto della vocazione culturale, il focus del progetto era il gioco. Stavolta, come avete bilanciato le istanze di divulgazione con le esigenze di marketing del partner?

Il rapporto con Sony si è sviluppato in maniera molto naturale, senza forzature. La priorità di Sony è stata fin da subito quella di aiutare il Museo a raggiungere i propri obiettivi culturali, senza troppe ingerenze di marketing. La fondazione Museo, d’altra parte, è basata su un modello di sviluppo sostenibile, e le aziende che scelgono di collaborare con noi fondano la partnership, prima di tutto, sul contenuto.

The Martian VR Experience è al centro di una delle attività nate dalla partnership tra Sony Interactive Entertainment e il Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci

The Martian VR Experience è al centro di una delle attività nate dalla partnership tra Sony Interactive Entertainment e il Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci

Per le attività in programma avete scelto di appoggiarvi a dei software già disponibili su PlayStation Store: Apollo 11 VR e The Martian: VR Experience. Qual è il valore aggiunto dal Museo all’esperienza?

Questa è un’ottima domanda: per noi è stato da subito prioritario identificare eventuali punti di forza derivanti dalla ricollocazione di esperienze commerciali in un contesto culturale. Diversamente dall’utilizzo casalingo, al Museo le esperienze non vengono semplicemente date in pasto al pubblico, ma sono affiancate da un curatore e da animatori scientifici. Durante i weekend dedicati allo Spazio e a Marte, ad esempio, le attività in VR vengono seguite direttamente dal curatore delle Collezioni Spazio e Astronomia del Museo, Luca Reduzzi, un grande esperto di astrofisica e di storia dell’esplorazione spaziale. Il curatore arricchisce l’esperienza con informazioni e aneddoti di taglio scientifico, in modo da contestualizzare l’esperienza col visore. In buona sostanza, utilizziamo il software e la VR come testo di partenza per raccontare i nostri temi-chiave.

Un altro vantaggio è il dialogo con le nostre esposizioni: con un unico biglietto i visitatori potranno eventualmente unire all’esperienza VR una passeggiata lungo la Collezione Spazio. Osservare – questa volta dal vero – un frammento di Luna e di Marte, o visitare la mostra Marte – incontri ravvicinati con il pianeta rosso dove sono esposti i taccuini originali dell’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, che per primo osservò e disegnò in maniera accurata la superficie di Marte.

Avete qualche altro progetto in cantiere con Sony? Più in generale, siete interessati a esplorare altre partnership con aziende del settore videoludico per divulgare la scienza e la tecnologia?

Beh, se così non fosse perderei il mio posto al Museo. =D Ovvio che sì. Per ora abbiamo sfruttato solo l’1% del potenziale educativo e divulgativo dei videogiochi. Dovrò pur occuparmi del restante 99%, no?

Al museo della Scienza e della Tecnologia sono presenti diverse installazioni interattive; alcune sono dei veri e propio videogame. Anzi, dei serious game. Li avete sviluppati internamente?

Internamente al Museo non abbiamo tutte le competenze e le risorse necessarie per sviluppare da zero un videogame. Io mi occupo del concept e del game design insieme ai miei colleghi curatori, dopodiché ci rivolgiamo ad aziende esterne per lo sviluppo vero e proprio: codice, grafica, prototipazione, eccetera.

Luca Roncella in compagnia di John Romero, a cui il Museo nel 2016 ha dedicato la mostra “C’era una volta DOOM”

Luca Roncella in compagnia di John Romero, a cui il Museo nel 2016 ha dedicato la mostra “C’era una volta DOOM”

Come vedi il futuro dei videogiochi in seno alle attività museali e più in generale culturali? E non mi riferisco solo al videogioco utilizzato come strumento divulgativo, ma anche come oggetto di studio e esposizione.

Il videogioco è una testimonianza materiale (hardware) e per certi versi immateriale (software) dell’uomo. Una testimonianza nata dalla tecnologia e dalla creatività della società che l’ha prodotta; una testimonianza che la riflette, e che come tale va preservata, valorizzata e analizzata per fini educativi, divulgativi, ma anche per il puro godimento.

Hai bazzicato qualche evento o exhibit dedicato ai videogiochi, in Italia o all’estero, che ti ha particolarmente colpito?

La scorsa estate, presso la Fondazione Prada, ho avuto modo di sperimentare l’istallazione in realtà virtuale Carne y Arena, concepita dal regista messicano Alejandro G. Iñárritu e dedicata al tema dell’immigrazione e dei rifugiati.

L’intero percorso verteva attorno a un’esperienza virtuale molto forte della durata di sei minuti, mentre la rimanente parte del testo era fisica. Il percorso cominciava in una stanza totalmente asettica e gelida, una sorta di bunker, dove era necessario attendere il proprio turno in solitaria. Da lì si accedeva alla parte in VR, pensata per essere multisensoriale con tanto di camminata a piedi scalzi sulla ghiaia e getti di aria gelida volti a simulare le pale di un elicottero. Al termine della fase immersiva, il fruitore poteva accedere a una stanza piena di monitor che trasmettevano in loop interviste a veri rifugiati. In definitiva, l’opera di Iñárritu mi è parsa un ottimo esempio di come sia possibile integrare la VR all’interno di un percorso artistico emozionale e narrativo.

Prima di salutarci, vorresti descriverci il tuo museo del videogioco ideale?

Immersivo, interattivo, interdisciplinare, informativo ed educativo. E naturalmente molto, molto nerd. Occhiali rotti compresi.

 

Foto © Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci