Speravo de morì prima, la recensione

È meno di un anno che è uscito Mi chiamo Francesco Totti, il documentario di Alex Infascelli in cui è presente in voce Francesco Totti, scritto anche appoggiandosi al libro Un Capitano di Paolo Condò, ora arriva una serie tv di finzione tratta da quel medesimo libro. Inevitabilmente tra i due esistono delle sovrapposizioni, stranamente sono cavalcate e sembrano girate per assomigliarsi, come se esistesse una verità storica indiscutibile che le due operazioni tratte dal medesimo libro condividono. L’universo condiviso di Totti e famiglia. Solo che questa è una commedia. E anche molto divertente.
Speravo de morì prima sa ridere dei milioni guadagnati, delle offerte di lavoro, dei sogni di grandi addii di Totti, di come il mondo intorno a lui lo tratta e soprattutto dell’incredibile tifo romano ma anche della quotidianità di Ilary e Francesco, già trasformati da tempo dalla tv, dalla pubblicità e dalla cronaca in una coppia tra vero e finto, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello con ancora meno filtri di recitazione. Ora Speravo de morì prima quel filtro di recitazione ce lo aggiunge e tra i molti possibili sceglie il grottesco. E sceglie benissimo.

La serie di Sky in 6 episodi opta per la complicatissima operazione di trasformazione delle persone in personaggi (come ogni film biografico) e poi ancora dei personaggi in personaggi comici, sempre più lontani dal vero eppure capaci di tenere forte un legame con le controparti reali. Sono inventate coppie comiche per contrasto (il padre muto e fermo accanto alla madre iperattiva, lo stesso Totti e Ilary Blasi) e per armonia (gli amici che fanno da coro) come anche personaggi che paiono non esistere (Antonio Cassano), scandagliando la cronaca sportiva degli ultimi due anni di carriera di Francesco Totti, gli aneddoti e poi anche il passato alla ricerca di umorismo. L’umorismo di Totti stesso.
Il risultato non è solo molto divertente ma anche un modo di raccontare una vita per parlare del tempo che passa e della parabola di una vita vissuta in 20 anni levando epica a tutto.
Il racconto di come la Roma perse lo scudetto contro la Sampdoria di Cassano ha un finale di rincorsa negli spogliatoi da Armata Brancaleone, da commediaccia anni ‘60 a cui si farebbe fatica a credere non ci fossero i veri protagonisti dietro questa serie.

Ma non c’è solo quello. In un altro flashback vediamo Totti a 24 anni ancora a casa con i genitori, la stessa casa in cui sono sempre stati nonostante siano arrivati da tempo denaro, fama e quasi uno scudetto. Lì è chiaro che è tutto il mondo di questo protagonista a non volersi muovere, un’indolenza così diffusa da essere contagiosa, un mondo che fatica ad andare a vivere in una villa perché non ha più le sue abitudini, che si affeziona ad Antonio Cassano per il periodo che viene a vivere con loro. Sono i personaggi che non si sa perché le altre commedie italiane non riescono a scrivere ma che dicono tantissimo di noi.
Perché come le commedie Speravo de morì prima si fonda molto sugli attori, ma a differenza delle peggiori li aiuta con la scrittura, li sostiene e non gli chiede di far ridere da soli, trovando una prestazione come se fossero su un palco, gli chiede di far ridere in un film, assieme agli altri, adeguandosi ad un tono e trovando il modo di dare un contributo ad un unico intento, invece di concedergli possibilità per degli assolo.

A portare ordine in tutto questo muoversi di eventi, allenatori, parenti, amici e partite, molto nel presente del racconto (le ultime due stagioni) e un po’ meno nel passato della vita di Totti, è Pietro Castellitto. La serie ha tutta l’umorismo di Totti e lui lo ha più di tutti, si muove pochissimo, fa pochissime espressioni, parla anche meno, eppure trova sempre la maniera di sfruttare il minimo delle possibilità espressive che lo sguardo scettico consente con ogni controparte. Per litigare con Spalletti, per confessare un amore ad Ilary e (nei momenti più esilaranti) per fare il bambino con i suoi figli. È Castellitto che scandisce il tempo, che dà più vitalità agli occhi non solo a mezz’asta del Totti giovane e più decadenza a quello 40enne, che dà complessità e quindi umanità ad un personaggio che altrimenti potrebbe sembrare un capriccioso. Così avvezzi a pensare che in una commedia l’umanità dei personaggi stia negli stacchi in cui non c’è da ridere, separata dalle gag e relegata a gesti eclatanti di momenti seri, in questa serie non vediamo arrivare l’eccezionale calore che scaturisce da quel medesimo grottesco che è usato per le fasi più dure o ridicole. E ci colpisce come fosse la prima volta.

Eppure la ragione per la quale questa serie vince e si dimostra appassionante nonostante sia tutto un avvicinarsi ad un finale chiaro e noto fin dall’inizio, non è nessuna di questo. È per l’ambizione di fare nuova televisione di commedia, quello che non eravamo ancora riusciti a fare nonostante i grandi passi avanti degli ultimi 10 anni. Dopo Boris la tv più ambiziosa italiana aveva rifuggito la commedia, il terreno del cinema pigro, per muoversi solo sul genere. Speravo de morì prima rimescola la commedia per un linguaggio delle immagini nuovo, unisce finto e reale come i migliori documentari d’avanguardia, dà una piega grottesca alla realtà per renderla chiara e raccontabile come il miglior Sorrentino (Stefano Bises, che ha guidato il team di sceneggiatura ha anche co-sceneggiato The New Pope) e soprattutto ci fa trovare l’umanità dove non siamo abituati a vederla.