Sfida al Presidente – The Comey Rule: la recensione

Nessuna storia, o almeno nessuna che vale la pena raccontare, è solo una storia. Ogni racconto, che sia basato sulla cronaca o inventato, è calato nel sistema che lo produce, nel momento storico che lo partorisce. La vicenda al centro di Sfida al Presidente – The Comey Rule, raccontata poniamo tra cinquant’anni, avrebbe inevitabilmente un sapore diverso, perché diversa sarebbe la prospettiva. Oggi, a ridosso delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, diventa il manifesto di uno sguardo contemporaneo che non ammette né freddezza né distanziamento. Una miniserie “a tesi”, se questa definizione può avere un senso, che fa della familiarità ai fatti un punto di forza.

La miniserie evento in due episodi – quasi tre ore e mezzo di durata complessiva – pone fin da subito come riferimento il testo A Higher Loyalty di James Comey. La storia narrata sarà familiare a chiunque abbia seguito, nemmeno troppo approfonditamente, la durissima campagna elettorale del 2016. In un clima politico infiammato dalla presenza imprevedibile di Donald Trump, l’FBI si trova a indagare sullo scandalo delle mail di Hillary Clinton. Sulla gestione della questione da parte del direttore dell’FBI si concentra tutto il primo episodio, mentre il secondo tratta del rapporto tra il nuovo presidente e il direttore del Bureau – la questione si sposta sull’ingerenza russa – fino al licenziamento di quest’ultimo.

Lo sceneggiatore e regista Billy Ray si è esposto affinché la miniserie venisse trasmessa prima delle elezioni di novembre. Da subito, quindi, il progetto travalica i limiti della pura narrazione per andare a costruire un quadro che non può essere svincolato da un obiettivo esterno. Comey, interpretato da Jeff Daniels, è l’uomo integerrimo che si trova a dover assumere una posizione impossibile. Sia agire che non agire, cioè sia rivelare l’indagine sulla Clinton che non rivelarla, avrebbe delle conseguenze negative dalle quali è impossibile sfuggire. Al centro di un dubbio amletico irrisolvibile, Comey non guarda al presente, ma al futuro, non considera la singola persona, considera l’istituzione.

La scrittura traccia allora il profilo di una figura più simbolica che umana. Con passo melodrammatico e un certo gusto per le scene madri, Comey pronuncia discorsi sulla sacra missione del funzionario, sulla lealtà, sull’amore per l’FBI, da agnello sacrificale che sa di esserlo, da non-politico che deve prendere una decisione inevitabilmente politica. E Trump? Brendan Gleeson offre un’interpretazione magnetica del presidente. È eccessivo, sopra le righe, forse caricaturale, ma diciamocela tutta, è possibile dare un’interpretazione “misurata” di Donald Trump? Consapevole di questo, la scrittura lavora su un minore minutaggio per non rendere strabordante la sua presenza in scena, ma quando c’è, l’attenzione non vacilla mai.

Se The Comey Rule ha un punto di vista chiaro sui fatti, al tempo stesso non racconta nulla di sorprendente. Ha il passo della tragedia che sfrutta il fatto che chiunque sa cosa sta per accadere. Nei momenti migliori costruisce una certa tensione, gioca sulla rabbia, ma probabilmente si rivolge ad un pubblico che ha già certe convinzioni. In questo senso è una buona miniserie, ma non rivelatoria o particolarmente illuminante. Contiene però delle tematiche interessanti, le stesse che si incarnano nella Storia nei momenti più decisivi: è giusto astenersi dall’agire? Quando un evento può dirsi “decisivo”? E come lo si misura?

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