Sacha Baron Cohen è pronto al ritorno nei panni di Borat il 23 ottobre su Amazon Prime Video.

Ma ci ricordiamo ancora di lui?

Per chi lo avesse perso di vista considerandolo finito, ricordiamo che questo signore è stato candidato al Golden Globe 2018 come buffone televisivo (lo show Who is America?) e al Golden Globe 2019 come attore drammatico da serie tv (The Spy). Quindi l’ultimo Sacha Baron Cohen non è solo quello delle gag formidabili durante le consegne premi come ai Britannia Awards 2013 e Oscar 2016. È ancora tra noi pronto a tornare nei panni di una delle sue maschere più note. Ma esattamente, come è cominciato questo numero comico ormai lungo più di 20 anni?

Formazione

L’Inghilterra è la patria dello humour nero e a Cambridge, università dalla grande tradizione di teatro comico, Sacha Baron Cohen si laurea a metà anni ‘90 con una tesi su Il coinvolgimento della comunità ebraica nel movimento per i diritti civili americano degli anni ‘60. Accipicchia. Ci sta tutto dunque che interpreti nel 2020 per Aaron Sorkin l’attivista Abbie Hoffman per la pellicola ambientata nel 1969 Il Processo ai Chicago 7. Indeciso se continuare la carriera accademica o darsi alla commedia, opta per lo show businness. Ma attenzione: le rare volte che il comico, quasi ancora debuttante con The 11 O’Clock Show (1998; c’è anche uno sconosciuto Ricky Gervais in quel programma) e famoso con Da Ali G Show (dal 2000 al 2004), comincia ad essere intervistato con la sua vera identità, ecco che la ricercata volgarità delle maschere lascia il posto all’eloquio dotto e allo stile signorile. Trattasi dunque di un comico intellettuale, segnato dal paese e dall’epoca in cui è nato. Il fatto di essere inglese ne fa di natura un istrione più sofisticato della media. Chiaro è l’influsso dei Monty Python, i geni di Oxford e Cambridge (John Cleese, Graham Chapman ed Eric Idle studiano in quel college come lui), inventori della comicità moderna a base di nichilismo, scatologia, grafica, violenza, provocazione intellettuale e cultura alta + bassa. Insomma, la disperazione divertente del Flying Circus di fine anni ’60 poi confluita in Saturday Night Live, Simpson e South Park. Il chiasso e le polemiche intorno all’uscita in sala del controverso Borat (2006) avrebbero ricordato molto da vicino quello che accade ai Monty Python nel 1979 per il loro terzo lungometraggio Brian di Nazareth, il cui protagonista si chiama quasi come lui: Brian Cohen.

Estratto da nostra intervista a Sacha Baron Cohen in quel di Giffoni Experience 2013

Folgorazione giovanile?
Brian di Nazareth dei Monty Python. Mi portarono a vederlo all’improvviso quando avevo 6 anni. Mio fratello più grande mi fece entrare di nascosto perché in realtà non avrei potuto entrare in sala per via della censura. Se c’è qualcosa che non funziona nel mio cervello da quel giorno, prendetevela con i Monty Python.

Cosa ricorda dei suoi inizi da attore comico?
I miei genitori erano sconvolti che volessi fare l’attore. Venivo da un ambiente sofisticato e da scuole prestigiose. Sia io che loro eravamo convinti che non avrei combinato niente e sarei stato povero e infelice.

E poi?
Poi è successo che lavoravo a un piccolo programma (The 11 O’Clock Show) per un canale inglese (Channel Four) e decisi di creare il personaggio di un giovane ricco che voleva scimmiottare i gangster rapper della cultura afroamericana. Quando mi accorsi che il personaggio funzionava, creai molti sketch in quel piccolo programma. Un giorno mi convocano i capi del canale e mi dicono: “Se fai ancora una volta quel personaggio, ti licenziamo!”. In quel momento ho capito che quella era la mia voce e che avrei dovuto seguire quello stile comico.

Ali G

Sacha Baron Cohen è Ali G
Nasce dunque colui che all’inizio è un ricco fan dei rapper di buona famiglia come i trapper della nostra Dark Polo Gang ma poi cambia status sociale perché Cohen lo vede più come un tragico perdente separato da un gap incolmabile rispetto agli idoli ricchi e potenti che sogna. Se lo avesse tenuto “figlio di papà” come era nato, non avrebbe raggiunto quella nota di tristezza e fallimento. Ali G è un londinese che sogna Los Angeles. Il rap è la sua passione, dopo le droghe leggere, donne, snack e capi firmati. Nel linguaggio televisivo in cui la maschera opera lo vediamo intervistare male dei personaggi celebri (i quali si lamentano, da lì la minaccia dei suoi capi), poi diventare addirittura conduttore di un suo programma: The Ali G Show, da noi si vede agli albori della tv satellitare su Canal Jimmy. Enorme successo. Madonna, diventata “inglese” per via della sua relazione con Guy Ritchie, lo vuole addirittura nel suo videoclip Music nel 2000. Arriva il film: Ali G Indahouse (2002). Questo pittoresco ragazzone tutto magliettone acriliche e zuccotti attillati in nylon diventa nella pellicola un politico in grado di salvare il mondo. Il film di Mark Mylod è cucito addosso ai panni sporchi di questo popolano omofobo. Discontinuo ma con qualche momento irresistibile. Il migliore? Ali G becca l’amicone Ricky C (un giovanissimo Martin Freeman) che sta facendo l’amore con un uomo e, nonostante il suo plateale disgusto per l’omosessualità, gli chiede, vincendo la sua ritrosia, come sia l’atto in sé con l’altro che gli dà un giudizio tutto sommato non negativo. Il film è a soggetto, classico nel senso di scritto e inquadrato canonicamente dentro un concetto di cinema comico standard. Discreti incassi mondiali. In Italia non lo vede nessuno. Viene distribuito da noi in 4-5 copie il 23 maggio 2003 dalla Universal. Lo scrivente ricorda di esserlo andato a vedere in proiezione stampa nella saletta di proiezione Universal di Via Po a Roma in assoluta solitudine.

Candid Cinema

Sacha Baron Cohen
Subito dopo il lungometraggio su Ali G il nativo di Londra è pronto per il film sulla sua nuova maschera, non aspettandosi certo il trambusto che avrebbe provocato. Si incavoleranno il governo del Kazhakistan, comunità israeliane, femministe e la pellicola sarà proibita in Russia. Probabilmente si irrita anche l’illustre cugino Simon Baron Cohen, eminente psicologo inglese autore di un trattato sull’autismo cerebrale. Borat Sagdiyev, presente in quello show tv del primo successo con il finto rapper Ali G e lo stilista gay Brüno, è protagonista dell’omonima pellicola che incassa quasi 70 milioni di dollari in Usa in soli dieci giorni. Il film è un falso documentario sulla visita in Usa di un giornalista televisivo del Khazakistan.

Costui è razzista, sessista e schiavo del sogno americano. Prima il coatto di Londra che parla come un giamaicano fumando spinelli tutto il giorno, poi un giornalista di moda austriaco per cui tutto il mondo dovrebbe obbligatoriamente essere gay. Infine il peggiore di tutti: Borat. Cohen attacca, prende a schiaffi il pubblico, dice cose orribili contro gli ebrei (lui che è ebreo), zingari, gay e sinistrorsi indolenti. Borat è stupido, volgare, ignorante e non ha coscienza di sé. Se l’umorismo, come scriveva Pirandello, è il sentimento del contrario sembra che Cohen attraverso questo mostro voglia svegliarci politicamente.

Stile: si arriva in un paese in cui Sacha Baron Cohen non è famoso (Stati Uniti, zone non toccate dal satellite per The Ali G Show), si contattano delle persone per fantomatiche interviste con oscuro giornalista kazako, si fanno firmare loro delle liberatorie genialmente truffaldine per non essere querelati, in alcuni casi si pagano profumatamente (in contanti) questi signori per il disturbo e poi, all’improvviso, entra in scena Borat che comincia la sua gag provocando e dialetticamente violentando l’ignaro interlocutore spesso incline ad accettare quasi qualsiasi idea da un reporter proveniente dal quasi terzo mondo. Vogliamo chiamarlo candid cinema? Il kazako un po’ Candido lo è pure lui anche se in chiave decisamente trash. Come il personaggio di Voltaire in questo viaggio nella per lui strana e affascinante società americana, Borat spesso e volentieri è un ingenuo pesce fuor d’acqua.

Fa la cacca in un parco come sostiene si faccia nel suo paese, interagisce con entusiasmo con le prostitute perché è l’unico modello femminile per lui comprensibile, si intrufola esterrefatto in un raduno gay, battibecca con le femministe sostenendo che Lei ha il cervello più piccolo di Lui, si disseta bevendo dal water ed entra in un’armeria chiedendo cosa può comprare per uccidere meglio un ebreo. Poi vede Pamela Anderson su un giornale, si innamora e corre in California per sposarla. Questo è il film. Alcune cose sono candid cinema dove conta la reazione dell’ignaro attore non protagonista coinvolto, alcune cose sono costruite più come il cinema tradizionale come tutte le scene che coinvolgono il sodale Ken Davitian, in uno dei pochissimi ruoli “a soggetto” ovvero il corpulento produttore televisivo Azamat Bagatov che non tornerà nel sequel. 2006: nel pieno del secondo mandato George W. Bush, quello in cui gli Usa avevano messo sempre più a rischio l’effetto solidaristico post-11 settembre per via della loro politica in Medio Oriente, Borat ci fa vedere la faccia brutta, goffa e ipocrita degli Stati Uniti d’America.

Un’immagine indimenticabile e totalmente simbolica presente anche nel trailer: in uno stadio per un rodeo, Borat canta come un manichino l’inno americano appoggiando con entusiasmo “La vostra guerra al terrore!” e nel mentre un cowboy cade miseramente da cavallo sullo sfondo. Cohen, ebreo colto e intimamente progressista sposato da 10 anni ma fidanzato da 18 con la collega Isla Fisher (tre figli), diventa lo spregevole Borat, maschera demoniaca che decide di non togliersi nemmeno per ritirare i premi che fioccano in tutto il mondo. Una caratteristica, quella di rimanere dentro il personaggio nei tour promozionali, alla quale l’attore inglese non vuole mai rinunciare. Lo sa bene anche il nostro ottimo Andrea Bedeschi.

Post Borat

Sacha Baron Cohen
Ora è un bel problema perché Sacha è famosissimo. Nonostante sia restio, per non uccidere la possibilità stessa del candid cinema, cominciano ad uscire sempre più informazioni su di lui anche perché, oggi pare assurdo ma all’epoca accade, il suo lavoro crea un certo sconcerto e dibattito all’interno della società occidentale anglosassone e non solo.

È lecito fare quello che fa questo comico? Rimane la possibilità di fare col candid cinema solo un film su Brüno, la cui idea è stimolare la reazione omofoba di fronte a un signore gay particolarmente aggressivo dal punto di vista sessuale ai limiti della sfacciataggine più irritante. Anche Brüno va in Usa per diventare “la  più grande superstar austriaca dai tempi di Hitler”. L’operazione, pur non essendo deflagrate come Borat, ottiene un grande successo commerciale (138 milioni di incasso worldwide per 42 di budget) e ha un’ottima scena quando Brüno cerca di placare il conflitto arabo-palestinese urlando alle due parti: “Smettetela di ammazzarvi tra voi, mettetevi d’ accordo per ammazzare i cristiani!”.

Il suo soggiorno israeliano si conclude con una fuga mezzo nudo indossando shorts trasparenti per le strade di Gerusalemme, inseguito da ebrei ortodossi inferociti per il suo outfit. È ormai chiaro che non si può più sfruttare il candid cinema. La notorietà è planetaria. A questo punto Sacha Baron Cohen diventa attore per Scorsese (non male il suo severo capostazione in Hugo Cabret) dopo Tim Burton (era stato bravo a cantare come barbiere italiano in Sweeney Todd, quella che lui considerò: “l’audizione lunga un film che mi fece ottenere la parte di Freddie Mercury“) e prima de Les Misérables (2012) di Tom Hooper.

Con Il Dittatore (2012) e Grimsby (2016) realizza due film a soggetto in cui nel primo cita il Woody Allen de Il dittatore dello stato libero di Bananas + Borat e nel secondo prova addirittura la spy action, reclutando come regista un pupillo di Luc Besson, tornando ai saporacci popolani di Ali G. Nella pellicola del 2012 Aladeen, leader supremo dell’inesistente stato nordafricano di Wadiya, arriva a New York (ancora!), nel cuore della democrazia planetaria (Onu) per incontrare premier cinesi ossessionati dal fare sesso a pagamento con star hollywoodiane (Tommy Lee Jones, Edward Norton in persona e Harvey Keitel), mettere in riga uno slow food gestito da smidollati fricchettonied instaurare una relazione con un’attivista politica (la sempre deliziosa Anna Faris). Con Grimsby – Attenti a quell’altro di Louis Leterrier diventa il teppista Nobby, hooligan nativo di Grimsby nel nord dell’Inghilterra con una fidanzata, undici figli e fratello drammaticamente scomparso.

Sacha Baron Cohen gioca con squallore (la città natale Grimsby è gemellata con Chernobyl), cattivo gusto (si tira in ballo spesso la pedofilia) e politicamente scorretto (un dolce bambino, usato dai media per sedare il conflitto isrealo-palestinese, perderà clamorosamente la pazienza). Le gag migliori coinvolgono un finto Daniel Radcliffe lontano dall’innocenza di Harry Potter e il futuro, all’epoca, candidato Repubblicano alla Presidenza Usa Donald Trump, vittima di una battutona sull’Aids che avrebbe fatto ridere le sale di mezzo mondo.

Conclusioni

C’è ancora posto per la sorpresa? Potrà Borat: Subsequent Moviefilm, dal 23 ottobre su Amazon Prime Video, avere non diciamo lo stesso successo del primo film del 2006 ma almeno ottenere ancora l’effetto del folgorante candid cinema di quegli anni in cui si facevano emergere alcuni traumi e tabù della società occidentale attraverso il finto giornalismo d’assalto? Lo scopriremo solo vedendo l’ultima follia di uno degli autori comici più “seri” degli ultimi 20 anni.