Grand Budapest Hotel doveva essere il film della consacrazione di Wes Anderson, e lo è stato. Ma ha anche tracciato una linea netta tra gli ammiratori del suo stile e i detrattori. Ha lanciato il regista oltre la sfera cinefila e agli occhi del pubblico generico, anche grazie a un cast nutritissimo e alle svariate nomination all’Oscar. Ma è anche con quest’opera che il regista fa un’importante dichiarazione d’autore: il suo stile è questo, la sua visione è questa. Non c’è una via di mezzo, ma una sempre più ossessiva ricerca dell’estremo. Una coerenza che attraversa l’intera filmografia e che non ha alcuna intenzione di lasciare.

La sua regia raggiunge dei livelli altissimi di compiacimento estetico, di perfezione nel dettaglio, sacrificando però la forza emotiva della storia. Il cast è composto da sole star, ma Anderson si appoggia sull’allora sconosciuto Tony Revolori, che interpreta il lobby boy Zero, per provare a ispirare quel minimo necessario di identificazione per lo spettatore. Il suo sguardo è sempre esterno e distaccato rispetto alle vicende. Tutta la narrazione impostata dal regista è orientata in questo senso: non partecipiamo mai dei drammi interni, ma li ammiriamo esteticamente.

C’è tanta violenza in questo film, come mai ce n’è stata nelle sue opere, ma è tutta stemperata dal tono fiabesco. Un grande hotel, tanti clienti ricchissimi che intrecciano le proprie relazioni nelle sue eleganti stanze. Armi, giochi di potere, tradimenti, sullo sfondo dell’avvento del nazismo per quello che è un thriller dai toni solari.

Il Grand Budapest Hotel è al centro di tutto, non come un personaggio (non è “vivo” come l’Overlook di Shining) ma come segno del cambiamento. L’edificio è un’immagine che racchiude in sé il mondo durante la guerra. È un cosmo che, come un diorama in movimento, contiene più esistenze nel mezzo dell’azione. Tramite gli zoom o le panoramiche a schiaffo andiamo a scoprirli e li “attiviamo”. Sembra di sentire il “ciak” gridato sul set ogni volta che il film introduce un nuovo personaggio. Tutti partono da fermi e solo poi prendono vita. 

La struttura del mistero, che attraversa la trama per la sua interezza, procede per cornici. Wes Anderson sovrabbonda della tecnica del framing: crea immagini nelle immagini. Utilizza gli elementi di scena per orientare lo sguardo. Foto, finestre, finestrini, cornici, inquadrano gli eventi come in una matrioska. Così è la sceneggiatura di Grand Budapest Hotel: un racconto all’interno del racconto di un ricordo.

La forma esplode, sconfina, prende per mano il regista e lo fa andare avanti quasi con il pilota automatico. Si viaggia spediti ma, spesso, ci si dimentica di rallentare proprio quando il paesaggio si fa più interessante. Fuori di metafora: Wes Anderson fallisce con Grand Budapest Hotel nella ricerca del momento emotivo. Si gode tutto allo stesso modo: ogni ambiente, ogni personaggio, ogni situazione. Ecco la prima grande difficoltà di questo film in cui i numerosi personaggi parlano allo stesso modo (calmo e forbito). Sembrano, in fondo, tutti uguali o per lo meno tutti con la stessa educazione (quando invece il film vuole sottolineare queste distinzioni) e con uguale statura morale.

Grand Budapest Hotel

Sono poche le situazioni con una vera dinamica e avvengono proprio quando la regia gioca con gli angoli del mondo cartoonesco che ha creato per creare dei contrasti interni. Un esempio è il brillante momento dei salti di luogo per far passare un’informazione, in cui tutti i personaggi compiono in realtà la stessa identica azione. Il dialogo “continua tu” è irresistibile proprio nel contesto in cui è inserito. Allo stesso modo è molto riuscita la fuga in funivia, con il dialogo ripetuto “lei è  monsieur Gustave?”. In quel momento l’architettura visiva dell’inquadratura, rappresentata dall’incrocio dei due cavi che formano una “x”, si fa parte integrante della storia. Non sarà sempre così.

Per il resto del film, Anderson disconnette spesso la sua trama da quello che vediamo, creando una dissonanza sicuramente interessante, ma molto debole nel veicolare le emozioni. Nonostante i colori e la recitazione sopra le righe, Grand Budapest Hotel è un film freddo, gelido, come la neve che circonda gli edifici. 

Non bastano gli attimi di energia e le piccole intuizioni per risollevarlo dall’inerzia a cui è sottoposto. I tre formati d’immagine differenti, scelti per indicare allo spettatore i tre piani dei ricordi, sono una tavola affascinante su cui giocare con la forma. Ma raramente riesce ad andare oltre la superficie (come invece faceva con I Tenenbaum o Il treno per il Darjeeling). I suoi buoni sentimenti, la sua visione politica semplicistica rendono difficile capire quali siano i sentimenti che animano i personaggi. Tutti appaiono mossi dalla stessa voglia di denaro, dallo stesso cinismo. Là dove, nei suoi film precedenti, era l’infantile bonarietà a muovere le case di bambole da lui costruite, qui il motore sembra una semplice voglia di auto affermazione.

Eppure tutti sono disposti a sacrificarsi per l’altro, anche senza sapere perché.

È facile accettare una visione lombrosiana dei buoni, bellissimi, e dei cattivi dal viso losco. Una divisione mai così accentuata prima d’ora in Wes Anderson. Più complesso è cercare di andare oltre la forma per trovare un cuore a questo film che non sia già stato logorato dalla precedente filmografia.

Grand Budapest Hotel è uno dei film più importanti del regista proprio per via di questi suoi difetti. È un’opera che non innova, ma rafforza il canone e lo porta quasi allo stereotipo. È il momento in cui si è tracciato un confine tra il prima e il dopo. Grand Budapest Hotel è il film con cui Wes Anderson ha deciso di non tornare indietro. Non rinnovare sé stesso, per perfezionarsi ogni volta di più.

Prendere o lasciare. 

Grand Budapest Hotel è disponibile su Disney+ nella sezione Star.