Era marzo del 2000 quando nei cinema degli Stati Uniti uscì il primo lungometraggio diretto da un tizio nato a Hong Kong e diventato americano all’età di dieci anni. Il tizio si chiama James Wong e il film in questione si chiama Final Destination, il primo capitolo di un franchise che ne ha visti uscire cinque nel giro di undici anni e che ancora oggi non è riuscito a trovare un erede degno di questo nome.

Vent’anni dopo, Wong è tornato a parlare di Final Destination in un’intervista video con Yahoo Entertainment (la potete vedere qui), e ci dà l’occasione per ricordare insieme a lui quello che è ancora oggi il suo miglior film.

 

Final Destination 3

Final Destination e le coincidenze

La carriera di James Wong è cominciata non con il cinema ma con la TV: dalla fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, il nostro lavorò, sia come sceneggiatore sia come regista, a un certo numero di serie TV più o meno di successo, la più importante delle quali è sicuramente X-Files. Nello stesso periodo, un altro tizio di nome Jeffrey Reddick scrisse un pitch nato come prequel di Nightmare e che diventò, riscrittura dopo riscrittura, un episodio proprio di X-Files, Flight 180, nel quale la Morte in persona, mantello nero, falce e tutto quanto, perseguitava Mulder e Scully dopo che i due erano riusciti a fregarla grazie a una visione premonitrice avuta dal fratello di Scully.

Non solo l’episodio non venne mai letto dalla produzione: lo stesso Reddick decise che la storia era troppo bella per sprecarla così, e cominciò a lavorare per trasformarla in un film. Quest’ultima versione è datata 1997: la comprò New Line e si mise in cerca di un regista. Lo trovò proprio in Wong, il quale non aveva idea di stare lavorando su uno script originariamente concepito per X-Files (lo scoprì solo anni dopo, come racconta anche nell’intervista), e che decise di dare una sistematina alla versione di Reddick; la modifica più importante fu quella relativa alla Morte, che Wong immaginò non come una figura concreta ma come un’entità disincarnata, una forza che si offende a morte (scusateci) quando i protagonisti del film la fregano e non salgono sull’aereo che li avrebbe dovuti uccidere tutti in un incidente. Può sembrare un dettaglio, ma fu decisivo per il successo di Final Destination.

 

Abbronzatissima

Final Destination e le morti creative

Come dice lo stesso Wong, “questo film parla di morti divertenti”. Non dei suoi protagonisti, o dell’inevitabilità della morte, o di predestinazione e libero arbitrio: il motivo per cui Final Destination incassò sei volte il suo budget e divenne un culto trasversale che piaceva sia ai fanatici dell’horror sia agli spettatori meno avvezzi al genere, non è la presenza di Ali Larter e Mary Elizabeth Winstead nel cast rispettivamente del primo e del terzo, né la sua profondità filosofica, ma è lo straordinario equilibrio tra la costruzione di personaggi interessanti e la voglia di scoprire in quale modo orrendo perderanno la vita nel corso del film.

È un gioco che il primo capitolo impiega pochi minuti a svelare, e che verrà ripetuto più o meno sempre uguale a sé stesso per l’intero arco di vita del franchise: Final Destination è quel film che impiega venti minuti a presentarti i suoi personaggi e i restanti settanta a costruire delle vere e proprie macchine di Goldberg per farli fuori in modi creativi. È un po’ l’antenato di Saw, senza tutta quella crudeltà e soprattutto senza il moralismo dei film di James Wan: la morte di Final Destination ha un lavoro, e le interessa portarlo a termine, più che vendicarsi della gente che è sfuggita dalle sue grinfie; se poi per portarlo a termine è necessario far fuori chi l’ha sabotata, be’, quello è solo un effetto collaterale: prima o poi si deve morire, tanto vale farlo quando lo dice la Morte e non quando lo decidiamo noi.

 

Final Destination morirete tutti

“Una sadica st****a”

Ciò non toglie che ci siano tanti modi per portare a termine il proprio lavoro di tristo mietitore, e quello immaginato da Wong sceglie sempre quelli più creativi e complicati; professionale sì, ma come dice il regista stesso anche “un sadico figlio di p”, che ha trasformato l’operazione di scrittura di nuovi capitoli di Final Destination in una gara a chi riesce a inventarsi la situazione letale più assurda e intricata che sia possibile replicare con i mezzi a disposizione sul set (nell’intervista Wong racconta delle difficoltà di girare certe scene con effetti pratici e limitando la CGI, una su tutte lo schianto aereo che apre l’intero franchise).

Anni fa circolavano su YouTube video (ormai misteriosamente spariti) di un programma giapponese chiamato PythagoraSwitch, che prendeva l’idea della già citata macchina di Goldberg e la metteva in pratica; oggi quello stesso formato è arrivato persino su America’s Got Talent, eppure è impossibile non rivederlo anche in Final Destination, che applica quello stesso piacere nel vedere meccanismi impossibili e coincidenze assurde convergere verso un singolo obiettivo – quello di ammazzare il poveraccio o la poveraccia di turno, oppure le poveracce, come in una delle scene più genuinamente terrificanti dell’intero franchise.

 

Final Destination 6?

James Wong ha dato addio a Final Destination dopo il terzo capitolo, che si gioca la palma di “migliore della saga” con il primo; i due episodi successivi non sono riusciti a replicare né il successo né la qualità dei primi tre, anche perché dopo un certo numero di omicidi creativi persino la Morte comincia a finire le idee. Prima della fine del mondo, quindi a marzo scorso, si parlava di un sesto capitolo che avrebbe continuato la gloriosa tradizione di morti creative di Final Destination, ma la pandemia ha rallentato i lavori. Attendiamo con fiducia, nella speranza di trovarci presto di fronte un’altra volta a scene di altissimo cinema come questa.

 

 

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